Fast fashion, l’inquinamento che segue la moda

Che cos’è? Quanto inquina? Ci sono alternative? Ecco semplici domande e risposte per capire tutto sulla fast fashion

Gli scaffali dei negozi di fast fashion

Cos’è la Fast fashion?

La fast fashion (moda veloce) è un modello di mercato degli abiti basato su ritmi sempre più veloci. L’individuazione dei trend, il disegno di un modello, la scelta dei materiali, la produzione e la distribuzione del capo di abbigliamento viene concentrato in tempi rapidissimi. Tutti questi passaggi, che una volta richiedevano mesi se non anni di lavoro, oggi sono ottimizzati e possono essere fatti nel giro di due settimane. Così gli scaffali dei negozi si riempiono di nuovi vestiti ogni due o tre settimane, abbandonando l’antico rituale delle due collezioni all’anno: primavera/estate e autunno/inverno. Questo modello emergente di mercato sta rivoluzionando il settore: la possibilità di comprare immediatamente i vestiti desiderati, spesso economici, spinge la gente a fare più acquisti e cambiare il proprio guardaroba più rapidamente. Tutto questo, però, ha un alto costo ambientale molto alto.

Quando nasce la Fast fashion?

Il termine è stato coniato dal New York Times nel 1989, in un articolo sulla nuova filosofia di moda seguita da giovani che “cambiano i loro vestiti con la stessa velocità in cui cambiano il colore del rossetto”. Questa è la storica frase che utilizza per la prima volta il termine: “At Zara, too, the emphasis in on fast fashion”. Zara infatti, così come H&M, è oggi considerato uno dei principali marchi della “moda veloce”. Benché le due catene nacquero prima, è negli anni ’80 che nasce questo nuovo modello di business, per poi esplodere all’inizio del nuovo secolo.

Quali sono le caratteristiche della Fast fashion?

  • Velocità: dalla decisione di creare un determinato vestito al suo arrivo in negozio passa poco tempo, anche solo un paio di settimane
  • Delocalizzazione: tale velocità si raggiunge con l’ottimizzazione dei sistemi produttivi. Questo spesso coincide con la delocalizzazione dei settori: in determinate parti del mondo si producono i tessuti e in altre si confezionano i vestiti. Spesso si delocalizza dove la manodopera costa meno e ci sono meno controlli ambientali e sulle condizioni di lavoro
  • Economicità: l’ottimizzazione del sistema di produzione e l’utillizzo di tessuti meno pregiati (in genere sintetici) rende i prodotti più economici, e quindi alla portata delle tasche di molte persone
  • Obsolescenza: introdurre continuamente nuovi vestiti economici negli scaffali incentiva il desiderio di acquistare e indossare nuovi vestiti. Essere in grado di cambiare collezioni ogni tre o quattro settimane tende a far sembrare vecchi dei capi appena acquistati. In questo modo i vestiti restano sempre meno tempo nei guardaroba dei consumatori, per lasciare il posto a nuovi modelli appena usciti

Quali sono le conseguenze per l’ambiente?

La fast fashion ha pesanti ricadute ambientali, dovute alla rapida obsolescenza dei vestiti e al sistema di produzione lineare. Si utilizzano una sempre maggiore quantità di risorse non rinnovabili per fabbricare indumenti che sono utilizzati poco e finiscono velocemente nelle discariche. Oggi si sfiorano i cento milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno legati all’abbigliamento. Ma i danni non si fermano qui, la fast fashion finisce col contaminare tutto l’ambiente: più anidride carbonica nell’atmosfera, più microplastica in mare, più pesticidi e coloranti nel terreno. Per capire meglio com’è possibile tutto questo, vediamo in dettaglio l’impatto ambientale di tutte le fasi del sistema produttivo

Produzione dei tessuti – quali materiali sono utilizzati?

I vestiti della fast fashion sono fabbricati principalmente con due tipi di tessuto: il cotone e le fibre sintetiche. 

  • Cotone – L’industria della fast fashion consuma ogni anno 79 trilioni di litri d’acqua e la maggior parte di essi sono utilizzati nelle coltivazioni di cotone. Gran parte dei principali paesi in cui si coltiva cotone (Cina, India, Pakistan e Turchia) sono in stress idrico. Senza contare l’enorme utilizzo di pesticidi (200mila tonnellate all’anno) che contaminano i terreni
  • Fibre sintetiche – I tessuti sintetici derivano principalmente dal petrolio: ogni anni si utlizzano 342 milioni di barili per fabbricare tessuti come il poliestere e il nylon. Una volta fabbricati, questi materiali sintetici continueranno ad avere pesanti ripercussioni ambientali

Produzione dei vestiti – Perché sono fabbricati nei paesi in via di sviluppo?

I vestiti sono in genere confezionati dove la manodopera costa meno, le regole di tutela ambientale e delle condizioni di lavoro sono limitate. Anche i controlli sono quasi inesistenti. D’altra parte se i vestiti costano meno, deve costar meno anche produrli e i tasselli che vengono sacrificati sono il costo del lavoro e l’ambiente. Tanto più che si richiede un numero sempre maggiore di vestiti in minor tempo: si calcola infatti che le marche di vestiti oggi stanno producendo quasi il doppio rispetto al 2000. L’industria tessile al momento produce 62 milioni di tonnellate di prodotti.

Distribuzione – Dove vengono venduti tutti questi vestiti?

Una volta fabbricati, i capi di abbigliamento devono raggiungere tutti i punti di vendita, distribuiti praticamente in tutto il pianeta: la fast fashion si è ormai diffusa in tutti i paesi sviluppati. E questo, unito alla delocalizzazione di tutta la filiera (produzione dei tessuti e fabbricazione dei vestiti) comporta un enorme dispendio di energia e rilascio di gas serra, dovuti al trasporto. I canali principali sono due: navi portacontainer o aerei cargo. Spesso si preferisce il secondo per la velocità, dal momento che i vestiti devono raggiungere gli scaffali sempre più rapidamente. Le emissioni generate dal trasporto aereo sono nettamente superiori.

Utilizzo – Quanto inquinano i lavaggi dei vestiti?

Gran parte dei vestiti sono fabbricati con fibre sintetiche, che rilasciano piccolissimi frammenti di tessuto quando vengono lavati, in particolare in lavatrice. Questi frammenti finiscono così nelle fogne e sono troppo piccoli per essere intercettati dai depuratori. La loro destinazione finale è il mare. Questo è forse uno degli aspetti più trascurati, ma in questo modo si disperdono mezzo milione di tonnellate di microfibre ogni anno, che rappresentano un terzo di tutta la microplastica in mare (l’equivalente di 50 miliardi di bottiglie).

“La maggior parte delle microplastiche dai tessuti viene rilasciata le prime volte che questi sono lavati. La fast fashion rappresenta livelli particolarmente elevati di tali rilasci, perché i suoi indumenti hanno un’alta quota di primi lavaggi, in quanto vengono utilizzati solo per poco tempo e tendono a consumarsi rapidamente a causa della loro bassa qualità”

Agenzia europea dell’Ambiente

Consumo – Quanto durano e dove finiscono i vestiti buttati?

Il basso prezzo (spesso connesso con la bassa qualità) e la continua proposta di nuove collezioni provocano il sottoutilizzo dei vestiti. Si stima che il numero di volte in cui si indossa un indumento sia calato del 36% nei 15 anni che vanno dal 2000 al 2015. Quindi, se si comprano sempre più vestiti, che poi si buttano via sempre più velocemente, il risultato è inevitabile: un enorme incremento di spazzatura. Oggi l’industria tessile provoca 92 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno, che finiscono nell’inceneritore, nelle discariche o nell’ambiente. Meno dell’1% del materiale utilizzato per produrre vestiti viene riciclato.

Alternative, che cos’è la “Slow fashion”?

I problemi ambientali e sociali legati alla fast fashion hanno provocato aspre critiche. In aperta opposizione ad esso è nato il movimento la “Slow fashion”, che mira a pratiche più sostenibili, privilegiando gli artigiani locali e l’utilizzo di materiali eco-compatibili. La slow fashion rientra nel più ampio movimento “Slow movement” ideato da Carlo Petrini, il fondatore di “Slow food” (a sua volta in contrasto all’imperversare del fast food).

FONTI