Cave e miniere, in Italia manca una normativa nazionale

Inquinamento dell’acqua e dell’aria causati da cave e miniere. Ma non c’è nessuna legge univoca per proteggere il suolo italiano

Cave di travertino

Cime mozzate, falde acquifere inquinate, aumento delle polveri sottili. Sono solo alcune delle conseguenze dell’attività estrattiva che avviene nelle cave e nelle miniere del nostro paese. Eppure sembra non essere un problema ambientale. Non per le istituzioni italiane, almeno. Manca infatti una normativa quadro, valida in tutta Italia.

La normativa: in vigore ancora il Regio Decreto

Basti pensare che l’attività è presieduta dal ministero delle Imprese e del Made in Italy (precedentemente chiamato Sviluppo economico). Il ministero dell’Ambiente, invece, non se ne occupa. Una scelta che può diventare comprensibile se si considera che l’unica legge che inquadra il fenomeno, a livello nazionale, è un Regio Decreto del 1927.(1) Fu firmato da Vittorio Emanuele III. In quell’epoca la sensibilità ambientale era modesta, l’importate era la produzione. 

Il Regio Decreto in questione si occupa nello specifico proprio delle cave nel Titolo 3. Questo è l’incipit: “Le cave e le torbiere sono lasciate in disponibilità del proprietario del suolo. Quando il proprietario non intraprenda la coltivazione della cava o torbiera o non dia ad essa sufficiente sviluppo, l’ingegnere capo del Distretto minerario può prefiggere un termine per l’inizio, la ripresa o la intensificazione dei lavori”. Insomma, in quell’epoca l’importante era scavare e mettere in moto l’attività produttiva italiana.

Cave e miniere: i numeri

Niente di strano, quindi, se negli anni questa attività è stata proficua. L’Istat conta un prelievo di risorse minerali di 152,4 milioni di tonnellate, ad opera di 3.580 cave attive.(2) Ma per capire meglio l’entità del fenomeno bisogna considerare anche un altro dato: Legambiente stima che ci siano almeno 14.000 cave dismesse o abbandonate.(3)

squarcio in un monte causato dalle cave

I problemi per l’ambiente

Questi numeri nascondono problemi ambientali enormi. Il paesaggio naturale viene irrimediabilmente alterato (ci sono luoghi in cui sono letteralmente scomparse delle colline). Le estrazioni spesso innalzano nuvole di polveri sottili, dannose per la salute (senza considerare il trasporto su gomma dei materiali estratti). Alcune tecniche di estrazione prevedono esplosioni, con vibrazioni che si riverberano per chilometri. Spesso le cavità rimaste dopo il prelievo vengono riempite con rifiuti, fanghi o scarti industriali (a volte lecitamente, a volte no).

La bacchettata della Costituzione

E allora, possibile che tutto ciò sia regolato dal Regio Decreto del 1927? Per essere più precisi a partire dal 1977 la competenza è stata trasferita alle Regioni, che da quel momento hanno iniziato a legiferare con tempi, sensibilità e regole differenti. Quello che manca, oggi, è una legge quadro nazionale che prescriva limiti e procedure univoche (ad esempio vietando l’estrazione vicino ad aree protette).

Una lacuna sottolineata dalla Costituzione, che considera la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” una materia di competenza esclusiva dello Stato. Ma, evidentemente, quella delle cave non è vista come un’attività con un notevole impatto per l’ambiente. Più o meno la stessa idee che avevano nel 1927, quando l’imperativo era scavare e produrre.

FONTI

  1. Regio Decreto 29 luglio 1927, n. 1443
  2. Attività estrattive da cave e miniere – Report Istat
  3. Rapporto cave – Report di Legambiente
  4. Miniere e cave – Focus di Ispra
Tivoli – 2017